Cronaca di una nascita violenta

 (questo racconto può risultare in alcuni punti forte e impressionante, pertanto se ne sconsiglia la lettura se particolarmente sensibili o suggestionabili)
 
Una lieta notizia
“Ragazzi, devo farvi un annuncio. Ho aspettato a dirvelo perché volevo esserne sicura: sono in travaglio!” Il mio parto è iniziato così. Con una risata, in pizzeria, fra amici intimi. Un amico mi disse sorridendo: “te l’avevo detto stamattina alla messa che avevi la faccia di una che sta per partorire…” Erano giorni che ero in ansia. La mia data presunta (dedotta dal metodo Billing’s) non concordava con quella dei medici (la data calcolata da me era 8 giorni dopo la loro e la bambina è nata 2 giorni dopo la data calcolata da me). La data nella quale loro collocavano il concepimento era l’ultimo giorno di un periodo di settimane senza neanche un rapporto, ma loro non guardano mica queste sciocchezze! Me ne stavo a casa senza dire niente né all’ospedale né alla ginecologa, ed andavo a fare i tracciati in una terza struttura. Mi sentivo una latitante. Se mi avessero scoperto, addio parto naturale: la mia bambina, secondo loro in ritardo, sarebbe stata tirata fuori a comando. Il terrore di un’induzione, cioè della violazione della mia intimità, dei processi naturali del mio corpo e della scelta della mia piccola di nascere nel momento in cui si sarebbe sentita pronta, iniziava a farsi strada. Doveva muoversi, doveva precedere l’arrivo dei medici. Ogni sera provavo a stimolarla dolcemente in un modo diverso: una volta con la riflessologia, un’altra dedicando la serata a stare in intimità con mio marito, un’altra ancora inghiottendo tazze di infuso di salvia… Niente. Alla fine stavo proprio impazzendo. Un giorno ho detto a mio marito: “stasera si esce. Devo assolutamente distrarmi. Almeno stasera devo riuscire a pensare ad altro”. E così, verso le sei del pomeriggio, mentre ero intenta a scegliere vestito e trucchi, finalmente rilassata pregustando la bella serata che mi avrebbe aspettato insieme a degli amici veramente speciali, ho iniziato ad avvertire i primi dolori. Volevo essere certa che non si trattasse dei soliti disturbi e doloretti all’utero che hanno costellato tutta la mia gravidanza, così non ci pensai e aspettai dei segni inconfondibili: fitte ritmiche, ogni 10 minuti e svuotamento intestinale. L’euforia mi elettrizzava. Non pensavo ad altro all’infuori del fatto che entro poche ore avrei finalmente abbracciavo la bimba che avevo tanto sognato: la mia piccola. Fuori dalla porta della pizzeria, il saluto della mia grande amica, madre già di due figli, mi sembrò decisamente eccessivo. Quando ci salutammo, mi abbracciò commossa e visibilmente preoccupata. Mi disse seria: “Dio ti benedica”. Proprio lei, la persona più serafica del mondo! Non l’avevo mai vista così. Che bisogno avevo che Dio mi benedicesse? Io stavo benissimo. La grinta che avevo e l’amore che mi animava mi avrebbe reso il dolore leggerissimo. Avrei sopportato tutto con gioia e con amore (ah, ah che illusa, poi avrei capito l’apprensione della mia amica…). In fin dei conti, non è una cosa naturale? E poi, io sapevo esattamente come muovermi perché tutto andasse per il verso giusto. Avevo studiato tutti i libri più moderni sul parto, passeggiavo, ballavo, ascoltavo musica classica, mi alzavo presto per fare esercizi in mezzo al verde, mi facevo fare massaggi rilassanti. Mi dedicavo, piena d’amore, alla mia bambina. Scrivevo un diario della gravidanza con tanto di foto, delle poesie, inventavo ninna nanne, parlavo con la piccola e la accarezzavo per iniziare a stabilire un rapporto con lei. L’attesa rendeva me e mio marito, sempre più uniti. Era la prima volta che mi sentivo così felice nella mia vita.
Ero stata seguita da un’ostetrica bravissima, esperta di parti in casa, che aveva chiarito ogni mio dubbio e dissipato ogni ansia. Avrei fatto con lei una grossa parte del travaglio a casa. Ero sicurissima anche di ciò che avrei trovato all’ospedale. Di certo le ostetriche erano tutte come quelle del corso: aggiornate, concordi con l’approccio naturista della mia ostetrica, promotrici di un parto attivo, guidato dall’istinto della donna e delle sue scelte personali. Avevo frequentato incontri sull’allattamento e avevo scelto l’ospedale più qualificato della zona riguardo l’allattamento (un ospedale toscano con certificazione Unicef di “Ospedale amico dei bambini”). Quello era l’essenziale. Che importava del parto? Il parto era l’ultima delle mie preoccupazioni. Avrei fatto un parto naturale, senza interventi esterni, per ridurre dolore e complicazioni e perchè mia figlia avesse potuto usufruire di tutti i benefici, fisici e psicologici, di una nascita non violenta. Ero decisa ad oppormi a chiunque avrebbe cercato di convincermi del contrario armato di flebo.
Torniamo alla pizzeria. Appena arrivati a casa, iniziai a fare le valigie e a sistemare il salotto in maniera accogliente. Era pieno di luci soffuse, morbidi cuscini di tutti i tipi, CD rilassanti, enormi palloni, sgabelli. Col mio solito passo frenetico, mi sono pure lavata i capelli, soltanto fermandomi durante la doglia. La mia mente era proiettata già a dopo il parto, quando non avrei avuto il tempo di lavarmeli per stare dietro alla mia piccina.

L’ingresso nel tunnel
Ore 11.00, inizio della discesa. Al ricordo sento calare un senso di buio e di terrore. Al pensiero sento brividi di freddo agghiaccianti. Compare nella mia mente una profonda caverna, buia e tetra, e io sola, che avanzo nel gelo, in discesa, sentendo in lontananza dei rumori sinistri. I dolori si fanno seri. Non riesco più a camminare come prima. Non sapevo di essere solo all’ingresso di un tunnel, il morale era ancora alto e i nervi ben saldi. In realtà qui ero ancora serena, ma il ricordo di questo momento ormai si colora di sensazioni tetre perché so che era l’inizio spensierato e innocente di un massacro. Le contrazioni erano ogni 3-5 minuti. Mio marito iniziava a preoccuparsi per il ritardo dell’ostetrica, ma io sapevo bene che avevo ancora tempo ed ero serena.
Finalmente arriva l’ostetrica. Mi tiene compagnia, mi dà delle idee per trovare la mia posizione, risponde alle mie domande. Mi sento capita. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, come sempre. Mio marito, è già il pilastro della mia avventura (in senso anche fisico!) Solo il contatto fisico con lui, a cui mi appoggiavo, e le sue carezze, riuscivano a confortarmi. Alle 4.00 l’ostetrica mi consiglia di andare all’ospedale. La strada è lunga e piena di curve, io sono già a 3-4 cm. Di dilatazione e devo anche avere il tempo di ambientarmi. In macchina riesco a mantenere la concentrazione, che è stata sempre fondamentale per non perdere la testa. Ad ogni ondata che si avvicinava pensavo: “benvenuta contrazione. Ti accolgo, rilasso i miei muscoli per accettare il dolore fino in fondo, piego la testa, mi immergo docilmente in esso. Non sbuffo forzatamente a comando come le donne nei film. Mi basta riuscire a prendere lo stretto necessario di ossigeno che mi serve e rimanere rilassata. Così posso convogliare le energie a pensare: “sento il dolore crescere. So che sta per raggiungere il picco. Deve farlo. Un altro po’ e ci siamo. Dopodichè è fatta. Inizierà a calare. È sempre così. Ora cala. Ora cala. Ora cala”. E dopo un po’ iniziava a calare.
Una volta arrivata all’ospedale ecco arrivare i primi disagi: domande a cui rispondere, commenti poco carini sul fatto che accovacciarsi a terra durante la doglia, per una che è appena arrivata, non sta molto bene, e poi le solite discussioni sulla data presunta del parto, luci negli occhi, mani estranee che mi vengono infilate dentro, consigli autoritari e dannosi, la notizia che la dilatazione per loro era appena di 1 cm. e che la mia ostetrica era incompetente. Semplicemente, come succede a molte donne, con il cambio di ambiente, visite fatte da estranei al di fuori della ostetrica abituale e la distrazione dai miei esercizi la dilatazione mi era regredita, non c’era davvero alcun bisogno di allarmarmi in quel modo. Il cambio di scenario mi ha fatto uscire dal mio stato di trance dove le ore scorrevano senza che me ne accorgessi, tornare con i piedi per terra, in una dimensione temporale precisa e con cose da pianificare razionalmente e azioni eseguire: adesso rispondo alle loro domande/accuse/ordini, adesso individuo la mia nuova stanza, adesso apro la valigia, adesso mi metto la camicia da notte… Come è vero: quando la paura o il pensiero razionale attivano la neocorteccia c’è assetto del cervello tutto diverso, in grado di bloccare la dilatazione, ma queste sono considerazioni che faccio solo ora, anni dopo e che invece loro avrebbero dovuto sapere già… Faccio la tanto raccomandata doccia. Ho ancora l’immagine di me, in preda al dolore, totalmente disconcentrata, a tremare sotto la doccia, al buio, con i brividi di freddo, piagnucolando. Una scena penosa, senza dignità. L’ostetrica naturalmente mi aveva insistito di farla anche se non mi andava affatto. Poi, faticando, riesco a mettermi la camicia da notte. Ritrovo la mia posizione, seduta, accoccolata su mio marito, che mi sosteneva da dietro. Ogni volta cercavo di non opporre resistenza al dolore, ma lo sforzo era altissimo: non cedere alla disperazione, all’angoscia per la contrazione futura, al chiedermi quanto tempo ancora avrei passato in quello stato. In questo modo riuscivo a risparmiare molte energie e a mantenere la calma che mi serviva per respirare e riposarmi quel poco che potevo tra una doglia e l’altra. In realtà potevo riposare ben poco. Di solito c’è una pausa tra una contrazione e l’altra: cos’ha il mio utero che non va adesso che sono qui? Perché diavolo ho contrazioni ravvicinate e tra una e l’altra il dolore rimane comunque così intenso da faticare a respirare? Mi viene da piangere, ma piangere fa troppo male, non posso permettermi neanche quello. Mi viene detto dal personale che non era vero che il dolore rimaneva anche nelle pause. Molte ore dopo invece mi fu detto che non ero stata bugiarda e che si trattava di utero ipertonico. Sopporto, mi concentro, penso all’amore per la mia creatura, assaporo quello del mio marito. Chiedo la forza al Signore. Uso tutta la mia buona volontà, mi impegno a non farmi prendere dall’ansia. Trovo in me una capacità di controllo e una calma interiore che non avrei mai pensato di avere. Incredibilmente riesco a fare alcuni degli esercizi che mi aveva consigliato l’ostetrica durante la gravidanza e che avevo letto (visualizzazioni di immagini, frasi, rilassamento muscolare …), mi riescono, mi rendono fortissima! La notte è lunga e faticosamente monotona. Vomito, vengo rimproverata dalla donna delle pulizie perché non ero riuscita a raggiungere il water. Ma non importa. Ho tutto quello che mi serve: mio marito, il buio, il silenzio, la fede, la giusta preparazione.

L’inizio della medicalizzazione
Alle 9 di mattina il primo cedimento. Alla notizia, durante la visita, che tutti i miei sforzi di paziente sopportazione (10 ore di dolori forti) erano stati inutili, lo sconforto si è impossessato di me. L’utero non aveva fatto progressi. Quella crisi di pianto mi rendeva il dolore più acuto e la respirazione più difficile. Dovevo superarla immediatamente. Dovetti impiegare di nuovo tutta la mia buona volontà per farlo. Cedetti però alla proposta del medico di accelerare i tempi con la rottura delle acque, come mi aveva consigliato già ore prima. Me lo meritavo, in fondo, erano quasi 12 ore che soffrivo senza pause tra una doglia e l’altra. Così, verso le 10 di mattina, per mano del medico, persi le acque. Non sapevo che era l’inizio di un tunnel senza fine: più si dice alla donna che le cose non vanno avanti al ritmo giusto (vorrei sapere poi da quale ricerca abbiano dedotto questo ritmo “giusto” visto che le ricerche parlano di ritmi molto più dilatati) più la donna va in tensione e soffre, più soffre e più si danno aiutini per velocizzare, più si danno aiutini e più il dolore diventa disumano per l’invasività delle procedure, più diventa disumano e più si vuole dare un altro aiutino per velocizzare, più si dà l’ulteriore aiutino e più la sofferenza si fa mostruosa e così via… mentre in realtà ogni intervento, oltre a produrre dolori disumani e danni, blocca ancora di più la capacità del corpo di partorire allungando ciò che era stato pianificato come un’agonia “dura ma rapida”, all’infinito. Torniamo a me, che allora non avevo una consapevolezza così alta delle cose, consapevolezza che invece avrebbero dovuto avere altri. Il cambiamento di ambiente (ero passata dalla stanza della maternità alla sala travaglio) mi disorientò, dovevo ricominciare tutto da capo: provare sedie e sgabelli, trovare la posizione, far regolare le luci… Con l’aiuto di mio marito e tutto il mio impegno, ce l’avevo fatta anche stavolta. Dopo alcune ore arriva il medico per la visita. Ero stata brava, ed ero stata anche aiutata da quell’intervento medico: stavolta sarebbe andata bene! Il medico scuote la testa. Siamo sempre là, cm. più, cm. meno. Io scoppio a piangere. Non ci posso credere. Tutta quella sofferenza per niente. Su consiglio del medico mi faccio mettere una flebo di ossitocina. Mi ero informata, sapevo che l’ossitocina aumentava il dolore in modo disumano, innaturale, eppure stupidamente chiesi: “aumenteranno i dolori?” Mentendo il medico disse naturalmente di no e ostentò con orgoglio la libertà di scelta che l’ospedale lascia alle donne. Ma quando non si fa niente per dare alternative reali e anzi si spoglia la donna delle sue armi, quella non è vera libertà. Io avevo delle armi (il silenzio, il buio, la tranquillità, la fiducia nel mio corpo, mio marito, gli esercizi) e invece di potenziarle mi sono state sottratte tutte, come racconterò poi. Quando nessun’ostetrica si fa vedere sostenerti nell’accettazione del tuo dolore e per darti sollievo (con impacchi caldi, massaggi, idee per provare diverse posizioni…) e l’unico aiuto che ti viene proposto in concreto è quello della via del rifiuto del dolore, della fuga, del rincorrere la fine di tutto come unica soluzione, senti che vieni indirizzata autorevolmente verso una sola strada tu, che in quel momento senti il bisogno di affidarti a qualcuno, senti i tuoi nervi cedere. Quando vieni guardata con preoccupazione e meraviglia per una dilatazione che non procede secondo le aspettative di chi… non ha studiato, ti senti instillare l’ansia. La paura ti farebbe fidare di chiunque. Se fosse passato là un mago e mi avesse detto che l’unica soluzione era bere una pozione magica, senza offrirmi aiuto pratico per trovare altre strade, avrei dato retta a lui. Iniziavo a cadere nella disperazione. Ormai avevo paura che nei miei normalissimi ritmi veramente c’era qualcosa di patologico, che chissà quanto tempo ancora ci sarebbe voluto e che i miei nervi non avrebbero retto ancora per ore, che sarei impazzita dal dolore prima di conoscere la mia bambina. Altro che parto attivo e libertà di cura! L’incutere la paura che le cose stiano andando male è una vera manipolazione, e devo ritenermi anche fortunata! In molti ospedali si arriva a una manipolazione perfino peggiore: per avere il consenso a procedere come si vuole, l’operatore arriva addirittura a mentire dichiarando una sofferenza fetale che in realtà non c’è.
Tornando indietro, avrei preferito stare coi dolori altre 20 ore piuttosto che passare quello poche ma tragiche ore. Pur avendo letto molto, lì per lì non pensai nemmeno che se accanto a me ci fosse stata un’ostetrica a confortarmi, a consigliarmi e ad alleviare il mio dolore in qualche modo le cose avrebbero potuto prendere un’altra piega. Forse lì per lì una donna non può avere la razionalità e la forza per mantenere salde le convinzioni con cui era partita. Quanto avrei avuto invece bisogno di una figura autorevole a ricordarmele e soprattutto a proteggerle dagli altri! Quando all’ospedale hanno rifiutato la presenza della mia ostetrica avrei voluto che lei fosse stata più presuntuosa, avrei voluto che mi avesse detto: “senza la mia presenza non puoi fare un parto naturale, non sarai così forte da riuscire a passare quelle ore atroci lottando contro tutti. Probabilmente però, se mi avesse descritto uno strazio simile, una violenza simile perpetrata ogni giorno nell’indifferenza di tutti, non le avrei creduto.
Era quasi impossibile trovare una posizione sopportabile. Il dolore sulla zona della vescica e sulle gambe era paralizzante come un crampo continuo, mentre non ho mai avuto nessun fastidio alla schiena. Ora non muovevo più neanche il collo e faticavo a reggermi da sola in piedi. Con l’ossitocina le onde di dolore erano decisamente al di sopra della mia portata, mi sommergevano, mi travolgevano facendomi restare in lunghe apnee. Sembravano interminabili. Dicevo a me stessa: “ora cala, ora cala!” Solo che iniziavo a dirlo sempre prima, ancora prima che raggiungessero il picco. Ogni volta che vomitavo o che andavo al bagno (cose normalissime di per sé) l’utero impazziva: iniziava a contrarsi all’impazzata, senza logica, senza pause, come con tante contrazioni appiccicate una all’altra, senza possibilità di prendere un respiro. Accadeva anche prima, ma era sempre più terribile e io sempre più estenuata per ritrovare la calma dopo ogni episodio. Ad un certo punto siamo stati lasciati da soli per un certo periodo di tempo. Finalmente, nel silenzio, con le tapparelle chiuse, si era creato un certo equilibrio, forse una specie di pausa che il mio corpo si era preso per riprendere energie. Mi sforzavo di assaporare le coccole di mio marito più che potevo. Mi ero concentrata molto anche sul pensiero di far calmare il mio utero. Sembrava che la mia concentrazione fosse riuscita davvero a rendere le contrazioni meno dolorose e a rilassare muscoli e nervi tra una doglia e l’altra. Sì, incredibilmente assaporavo per la prima volta qualcosa di appena appena sostenibile, qualcosa di sopportabile. Avevo ripreso il controllo sui miei nervi scossi e sul mio corpo e, avendo letto molto, sapevo che questo fenomeno è del tutto fisiologico e positivo per la riuscita del parto.
Non passò molto tempo che entrò la nuova ostetrica, purtroppo molto più zelante ed attiva della precedente. Ricordo benissimo il suo maldestro ingresso. La sua vociona a spezzare il silenzio, la luce della finestra sugli occhi come a svegliarmi bruscamente da un sonno, il suo scuotermi la gamba sinistra. Non che la scosse con forza, ma per me ogni tocco sulle gambe risultava sconvolgente. Belando come una pecora, balbettando qualche parola confusa, imploravo pietà, ma niente: la sua missione era ammorbidire le mie gambe, fare un bel massaggio ai piedi e farmi allargare le ginocchia: andava fatto e basta. Il suo parlare spiritoso e cordiale e i suoi sorrisi mi spinsero a fidarmi di lei (quando sei disperato ti fidi di chiunque. E poi, chi sarebbe stato in grado di opporsi, prostrato dal dolore in quel modo?) Cercai di impegnarmi per trarre beneficio dal massaggio ai piedi, inutilmente. Ora so che quelle cose banali come la luce, il rumore forte erano così dolorose non per una mia sensibilità particolare ma perché, ed è dimostrato, attivano la neocorteccia interferendo pericolosamente con i meccanismi fisiologici in atto. Chiesi dell’agopuntore, mi era stato detto durante il corso che avrei potuto usufruirne, ma mi fu negato. La visita, dolorosa come tutte le visite, confermò la sua opinione: quel breve periodo di “stasi” era stato inutile. Oltre i 5-6 non riuscivo ad andare. Mi disse che ero esagerata a dire che i dolori erano forti e continui. In fondo, lei, spiandomi dalla porta, aveva visto benissimo che dormivo. Volevo ribellarmi, urlarle che non stavo affatto dormendo, che l’avevo sentita spiarmi, che ero solo assorta nei miei esercizi di rilassamento per resistere al dolore. Ma non avevo le forze per difendermi (soltanto anni dopo, documentandomi, ho potuto capire che ruolo enorme la tensione emotiva può giocare sul cervello e sul sistema ormonale in quei momenti). Vista la situazione, io e mio marito concordammo con loro che bisognava tentare qualcos’ altro. Mi fu spalmato del gel alle prostaglandine. Come tutte le altre cose, non ebbe il minimo effetto. Era l’ennesimo colpo. La dottoressa allora mi aumentò la dose di ossitocina e mi fece una puntura di Buscopan per dilatare l’utero. Chiesi all’infermiera se il Buscopan mi avrebbe anche alleviato un po’ il dolore (nella mentalità comune Buscopan significa semplicemente analgesico), mi fu risposto di sì, per farmi stare zitta. I dolori si fecero nel giro di due minuti mostruosamente insopportabili. Continuavo a chiedere quando avrebbe fatto effetto l’analgesico. Mi trascinavo al bagno con l’ingombro della cinta per il tracciato (che mi fu tenuta pochi minuti) e del carrello della flebo per poi implorare l’infermiera, contorcendomi, di staccarmi quell’ago maledetto. Avevo scoperto il vero effetto di quello che mi stavano somministrando. Se avessi avuto un po’ più di coraggio avrei staccato l’ago dal braccio da sola. Che cosa mi stava succedendo? Dissi che era troppo per me, che non riuscivo a sopportarlo, che gli intervalli erano impercettibili e non trovavo il tempo per respirare, ma mi fu detto distrattamente che ormai non si poteva fare niente. Approfittando di un momento in cui fummo lasciati soli, mio marito mi rimproverò:” Smettila! Lo vedi che non ce la fai? Chiedi il cesareo! Sei una stupida! Non ce la puoi fare, sono 24 ore che stai male!” Ma io per la mia bambina volevo solo il meglio, costi quel che costi. In un certo senso aveva ragione: quando si ha a che fare con degli incompetenti invece quasi quasi tutto sommato fa meno danni un cesareo di un parto ipermedicalizzato.

La fase più drammatica
Entro 15 minuti di spasmodico dolore e di respiri stentati (un tempo eterno…) iniziai ad avere l’impulso irrefrenabile a spingere. Era arrivato il grande momento. Come una che sta per salire su un palcoscenico, pensai: “ci siamo davvero? Non mi sento pronta, ho paura.” Ma non riuscivo a dire una parola. Dissi a cenni che andava bene la poltrona che mi proposero loro. Era gialla, consistente ma di morbida pelle, regolabile in ogni punto e il fatto che piedi e testa fossero sorretti mi confortava sul fatto che non sarei caduta per terra. Ormai le forze non c’erano più, nonostante le flebo la testa non stava più dritta sul collo. Dopo un minuto dissi che avevo cambiato idea. Volevo rimanere lì appoggiata all’indietro su mio marito e sul mio affezionato sgabello olandese. L’ostetrica mi fece notare che l’infermiera, poverina, ormai aveva disinfettato e impacchettato per benino la poltrona e si sarebbe innervosita. Ormai ero in preda al terrore. Salendo sulla poltrona provai un’emozione bruttissima: non riuscivo ad immaginare il dolore dell’espulsione, la mia pancia che si sarebbe svuotata, lei fuori di me, io a spingere… non mi sentivo pronta. E poi, partorire e far nascere la mia bambina nello scenario tetro e terrificante delle mie urla cavernicole… Non è così che doveva andare. Stavo vivendo un incubo. Mi trovavo immersa in una realtà che non era quella che avevo immaginato. Niente a che vedere con le emozioni mistiche e la forza d’animo che avevo immaginato. Ormai non c’era più niente, neanche la mia stessa anima. Il corpo non c’era, fuori controllo dal dolore spasmodico. Mio marito non c’era. Dopo tutto quello che aveva fatto e che stava ancora facendo, mi sembrava che in quel momento non ci fosse più. Più tardi, quando nel reparto maternità mi fece vedere i graffi sul braccio, mi resi conto che invece c’era eccome, e chiesi come fosse successo. Mi trovavo in un altro mondo dove nessuno sembrava capirmi lontanamente. La bambina stessa, che doveva essere la forza ispiratrice di tutta la mia forza d’animo, non c’era più neanche lei. Non mi importava proprio niente di lei. La mia anima non c’era più, impotente, incapace di ragionare, in preda alle torture e a una disperazione infernale. Il Signore stesso lì con me non c’era più e non so se potrò mai perdonarglielo questo. Cosa c’era allora in quell’ultimo quarto d’ora? Solo il dolore. Io stessa ero dolore straziante allo stato puro.
Tra lo sconcerto e l’indignazione di tutti rifiutai l’episiotomia. Un vera ferita al loro orgoglio. Dovetti difendermi e ribadire più volte il mio rifiuto. Mi dissero che ognuno doveva fare il suo mestiere, che ero presuntuosa a mettere in dubbio la loro esperienza e professionalità, che avevo un perineo troppo rigido per poter fare da sola, che le bionde sono più delicate delle more ed altre cavolate simili. Mentre spingevo sentivo il dolore aumentare quando l’ostetrica faceva la dilatazione a mano allargandomi con forza verso il basso. Le contrazioni, assolutamente disumane, erano ormai una dietro l’altra e la sovradistenzione della pelle (dovuta a posizione litotomica, gambe tenute aperte “a spaccata” e dilatazione e mano) mi toglieva ogni possibilità di concentrarmi su qualunque cosa oltre il dolore. Solo anni dopo continuando a leggere scoprì che è scientificamente provato che non il parto naturale ma solo quel tipo di sovradistenzione può causare lacerazioni anteriori molto brutte. Ad un certo punto, spingendo, sentì il grosso “strapp” della mia carne cedere lungo i bordi del clitoride. Rimasi scioccata. Tutti dissero che me l’ero cercata e che così avrei imparato a mettere in dubbio la loro competenza. Ironia della sorte, sulla cartella clinica, molto furbamente c’era scritto che ero uscita dal parto senza alcun tipo di lacerazioni.
Perfino dopo il parto i rimproveri sono continuati. L’ostetrica mi chiese: “tu che lavoro fai? io ti vengo a dire come si fa il tuo lavoro?” Ricordo battutacce tipo: “che carattere! Povero marito…” L’infermiera mi chiese sarcasticamente di che segno ero precisando che con quel caratteraccio non potevo che essere un capricorno, e anche il motivo della mia strana idea. Quando risposi che mi ero consultata con la mia ostetrica e che avevo trovato conferma delle sue idee in un documento OMS che mi ero tradotta da sola dall’inglese, la ginecologa mi interruppe, si tolse i guanti e disse seccamente, con evidente risentimento: “voi due dovreste solo dirci “grazie”. L’ostetrica aggiunse seccata: “è tutta colpa delle ostetriche dei corsi pre-parto che vi mettono in testa tutte queste cavolate, ora ci parlo io!”
Torniamo indietro al momento in cui ho sentito la lacerazione. In quell’istante sconcertante dello strappo sgranai gli occhi e pensai: “e adesso?” Mi chiedevo come avrei potuto trovare il coraggio di spingere con decisione sopra le due ferite alla successiva contrazione. Implorai la ginecologa: “per favore mi faccia l’episiotomia! Subito! Subito!” Non volevo correre il rischio che arrivasse la contrazione successiva. L’infermiera, alle mie parole aggiunse sarcastica: “pure! Dopo che l’hai rifiutata con quella testardaggine!” L’episiotomia non fu dolorosa, come pure il catetere, che l’infermiera mi fece a detta sua“per guadagnare spazio” lasciandomi però in eredità delle frequenti cistiti.
Appena arrivò il bisogno di spingere forte provai a spingere urlando con la “A” e ad usare la poltrona rimanendo in posizione abbastanza verticale, mi veniva naturale ed erano cose entrambe consigliate all’unanimità da tutti gli esperti. Tutti però mi dicevano cosa dovevo fare: la ginecologa che dovevo alzare i maniglioni del letto come delle buste della spesa, l’ostetrica che dovevo immaginare di fare la cacca (che immagine brutta per dare alla luce un bimbo!) e che se non avessi divaricato le gambe (tipo spaccata) la bambina non sarebbe mai uscita, l’infermiera che dovevo spostare il sedere non so come. Io disperdevo le energie a cercare di obbedire ed intanto urlavo: “non capisco! Non capisco!” Ed era vero che non le capivo: sembrava non avessero idea di cosa mi dicesse il mio corpo. Mi ordinavano posizioni e movimenti dolorosissimi e innaturalissimi. Per loro dovevo stare sdraiata e il sedere doveva essere completamente fuori dalla poltrona (in modo che stessero più comode loro immagino, come se fossero al cinema). L’impulso sano e irrefrenabile del mio corpo mi imponeva però di alzarmi così, tirata fuori dalla poltrona come mi avevano messo, avevo paura di cadere, dovevo reggermi tipo contorsionista per non cadere, figuriamoci se potevo rilassarmi e spingere… Solo molto dopo scoprì che, oltre la posizione litotomica (pericolosa per molte ragioni, anche per la salute del bambino) mi stavano obbligando ad usare la Valsalva, una tecnica di spinta obsoleta, inefficace e pericolosa, mentre io, scientificamente parlando, stavo facendo istintivamente tutto nel migliore dei modi. Un incredibile salto all’indietro di mezzo secolo di scienza: non ho avuto nemmeno quello che riuscì ad avere mia madre a inizio anni ’80.
L’infermiera aveva degli occhi freddi e scocciati. Stava semplicemente facendo un noioso turno in fabbrica. La faccia di una che sta già pensando a quello che avrebbe fatto a casa sua una volta finito il turno: una bella doccia, una serata fuori … Sembrava pensare: “Questo turno pesante oggi è proprio una scocciatura! Non ci voleva!” Mi guardava con superiorità come fossi una pazza, poi guardava le altre e faceva battutacce sul mio essere testarda e piagnucolona.
Quando spingevo mi rimproveravano perché spingevo “di gola” (mai trovato le basi scientifiche di quest’ assurdità!) Mentre spingevo urlavo ad un volume fortissimo, tanto che attirai nella stanza la presenza di molte persone (che notai solo dopo). Le mie reazioni emotive dovevano essere molto disturbanti per tutti. Ognuno aveva le sue modalità di gestione. L’ostetrica continuava a parlare di continuo con tono forzatamente calmo, come fosse del tutto alienata dalla situazione, come se si trovasse in un altro luogo, magari davanti al film di un parto con i pop-coarn in mano. La sua indifferenza era palpabile mi faceva sentire davvero sola in quello che stavo provando. L’infermiera invece mi fece capire che era meglio spingere in apnea senza urlare a suon di ceffoni. Li ricordo benissimo: due sonori ceffoni: “basta! Adesso fai come diciamo noi! Zitta e spingi” urlava nervosa e impermalosita. Mentre lo diceva, approfittando del mio smarrimento abbassò lo schienale facendomi cadere dolorosamente all’indietro mandando in fumo la conquista per la quale mi ero tanto battuta: la posizione quasi verticale. Da semi-sdraiata il dolore diventava disumano. Mentre continuava a spingermi all’indietro di malo modo io mi divincolavo, perché c’era nel mio corpo qualcosa più forte di me che mi imponeva di tirarmi su con tutte le mie forse e urlare: “nooo! Nooo! Per favore!” Era semplicemente la forza della natura, quello che tutte le donne che hanno partorito possono dire di aver provato da milioni di anni. Alle mie urla di protesta fu risposto in modo secco e sgarbato. Dovevo letteralmente finirla di fare la bambina. Si guardavano tra di loro dicendo: “ammazza che caratterino!” Era la seconda volta che qualcuno mi buttava bruscamente all’indietro su un letto. La prima era stata l’unica volta che avevo trovato il coraggio di tentare di oppormi alle molestie di mio zio, da piccola.
Mio marito, su loro indicazione, si era trasformato in aguzzino pure lui. Mi teneva aperte le gambe come gli era stato ordinato, ma facendo delle pause perché, a detta dell’ostetrica stessa, i miei muscoli, in quella posizione innaturale, facevano così tanta resistenza che avrei potuto benissimo spaccarmi una gamba. Ormai ero tutta sudata, piena di puntini rossi (i capillari si erano vistosamente rotti), con la gola graffiata dalle urla, con i calli sulle mani. Durante la gravidanza, quando guardavo le immagini sconvolgenti dei film nelle scene di parti o dei parti veri ospedalieri (non quelli in casa naturalmente), io sorridevo dicendo “sono solo film, a me non succederà mai”. Quando li guardavo pensavo: “quel dolore disumano è dovuto al lettino ginecologico e all’eccesso di medicalizzazione. E poi io ho tante informazioni per tenere sotto controllo il dolore. Ho mio marito, ho la mia positività.” La realtà aveva sorpassato perfino l’immaginazione dei registi più drammatici e io ero troppo sconvolta perfino per rendermi conto che era in atto proprio quella medicalizzazione che non volevo. Le mie urla, cavernose, penetranti e ininterrotte, avevano scosso tanto i nervi dell’infermiera ed attirato un numero altissimo di personale e tirocinanti che prendevano appunti. A un certo punto entrò un dottore dicendo che mi sentiva da lontanissimo. Il tempo sembrava eterno. Dopo ogni contrazione chiedevo freneticamente: “si è mossa? Si è mossa?”Ad un certo punto ricordo di aver pensato: “è finita. Non uscirà mai. Non può uscire. La ginecologa deve aver colto la mia disperazione. La sua strategia è stata quella migliore: non diceva una parola. Quando parlò, ricordo la sua voce come la voce di un angelo che veniva a salvarmi: “adesso spingiamo insieme va bene?” La pregai con gli occhi spalancati: “sì!” Alla successiva contrazione la sentii spingere forte sulla mia pancia. Si appoggiò su di me alzando i piedi da terra, facendo quella cosa tanto pericolosa per mamma e bambino che altro non è che un travisamento della famosa manovra di Kristeller. Io incredibilmente misi del tutto da parte il mio dolore al clitoride, presi coraggio mi dissi: “Basta! Adesso devo farla uscire a tutti i costi!” Ho spinto con tutte le mie forze ma non ho avuto la gratificante sensazione di averla fatta uscire io. I maltrattamenti, le tecniche sbagliate e le sostanze chimiche con tutte le loro sconosciute e taciute controindicazioni avevano impedito al mio cervello e al mio corpo di lavorare correttamente, quello non era un parto, era solo una violenta spremitura, con una manovra finale che costa a molte donne la rottura di costole e a molti bambini danni seri. La sensazione della pancia che si svuotava è stata brusca e impressionante. Sembrava che il mio corpo venisse svuotato di tutti i suoi organi interni. Ormai dopo 9 mesi sentivo il pancione come normale parte del corpo. Un blocco unico. Ripensando allo svuotamento mi viene in mente una maestosa montagna dolomitica, un colosso che si sposta col rumore di un terremoto.
Vidi tra le mie gambe schizzare fuori un bozzolo caldo e biancastro. Non potevo crederci: era uscita!” Subito dopo è schizzata fuori senza alcun dolore né sforzo la placenta. L’ostetrica disse che la bimba non collaborava perché aveva un piedino attorcigliato nel cordone ombelicale (cosa palesemente falsa per ogni esperto di parto naturale). Sarò per sempre grata al Signore per il fatto che la piccola mi sia stata posata immediatamente sulla pancia, in basso. Ogni volta che lei è sdraiata sopra di me nei primi mesi mi è sembrato di rivivere quella sensazione. È stata un’emozione così bella da risultare sconvolgente. Era calda, bagnata, sopra la mia pancia improvvisamente e stranamente sgonfia. Non osai guardarla, mi voltavo alla parte opposta, tremavo e stavo ancora immobile. Dopo pochi secondi mi fu tolta. Meno male, altrimenti si sarebbe assordita dalle urla. Non avrei mai immaginato che i dolori del secondamento potessero uguagliare quelli del parto. Ricordo che, senza nessuna ragione medica giustificabile né preavviso, mi fu infilata una mano dentro la pancia con dei movimenti circolari veloci e bruschi. Per descrivere quello che ho provato mi viene in mente solo questo paragone: gli aguzzini dell’inquisizione quando tiravano fuori le budella dei prigionieri da svegli per torturarli. Credo proprio che fosse quella la sensazione. I punti furono tanti e dolorosissimi (collo dell’utero, imene, vagina e clitoride, che era rimasto appeso tra due profonde “V”). Ad un certo punto l’infermiera mi rimproverò: “Insomma! E facci lavorare in pace!” Questa volta risposi: “già sto faticando per rimanere ferma, almeno fatemi sfogare!”. Seguì un: “Ah! Addirittura…” Tutti gli amici, parenti e perfino mio marito mi hanno detto sempre “ti sta bene, il clitoride lacerato telo sei voluta tu per aver rifiutato l’episiotomia!” con tutta la rabbia e l’umiliazione che ne consegue. Io so bene che invece sono state le loro procedure, ma non ci crede nessuno fino in fondo perché ormai queste sono completamente accettate nella mentalità comune.

La bimba dov’era?
E la bimba? Già, dov’era? Dice mio marito di avermi girato intorno un’ora con lei in braccio dicendomi: “guarda che bella bambina” mentre io voltavo dall’altra parte la testa piangendo e dicendo: “no! No!” In verità non ricordo quasi niente di quest’ora. Probabilmente ero sotto choc. Non mi sentivo pronta per sentimenti di gioia e di accoglienza e avevo anche paura di scoprire che, ancora una volta, magari c’era qualcosa che non andava. Quando finalmente mio marito mi mostrò la piccina, mi stava guardando negli occhi, cercava lo sguardo della mamma. Sono rimasta a bocca aperta: aveva gli occhi grigio- blu, uno sguardo attento, intelligente e sembrava riconoscermi. Niente sangue o lividi ma una bambina paffuta con la pelle ancora coperta di vernice bianca (segno che aveva ragione il Billing’s!) Ho esclamato: “mi somiglia! E anche a te!”. Mio marito mi guardava e, piangendo, sorrideva. Poverino, per quasi 24 ore non era andato né a mangiare né a fare pipì!
Tornando alla sala travaglio, ero così debole che, dopo 3 ore di svenimenti a ogni tentativo di mettermi in sedia a rotelle, mi hanno dovuto portare in camera con il letto. E anche da sdraiata la testa continuava a girarmi. Non ho mangiato niente. Ho passato la notte tra svenimenti, flebo e febbre. Non riuscendo ad alzarmi ho dovuto usare la padella tutta la notte. L’emoglobina era metà del valore considerato minimo, tanto che tre giorni dopo la dottoressa mi disse che, stando alle regole, non avrebbe potuto dimettermi (ma quanto sangue mi hanno fatto perdere!?) In via del tutto eccezionale, per la prima notte hanno consentito a mio marito di restare con me, privilegio concesso lì solo in caso di cesareo. Avevo vampate di calore, sentivo i miei organi interni vagare in cerca di un nuovo posto, il peso del corpo tutto sbilanciato, i punti talmente fastidiosi da rendere difficoltosa qualunque posizione. Volli allattare da immediatamente dopo il parto e a richiesta, andando sopra le mie poche forze rimaste, scalciando e tremando dal dolore ai capezzoli (solo dopo ho saputo che le “botte” ricevute dalle gomitate e dalle contrazioni forti del’ossitocina avevano danneggiato la sua capacità di succhiare correttamente e provocato anche altri danni), l’utero si contraeva per ripulirsi ricordandomi le sensazioni del parto e io chiedevo tachipirina dicendo: “non voglio più sentire la minima contrazione!” Le contrazioni ormai provocavano una sorta di fobia. Non so perché, senza il mio consenso, mi fu fatta una flebo di antibiotico per un po’ di febbre (forse era solo la montata lattea). Ogni tanto mio marito usciva portandomi via la bambina per permettermi di riposare un po’. A detta sua ho dormito alcune ore. Ero talmente sfinita che invece ricordo la prima notte come un estenuante continuo e doloroso ciucciare della bimba. Avrei voluto essere più in forma per potermi godere di più le prime ore con la mia bambina e occuparmi del suo attacco corretto. Una mia amica conosciuta al corso, appena uscita dal cesareo, fu portata nella mia camera: stava meglio di me che avevo partorito per via vaginale.

Il post-partum
Subito dopo ero estremamente delusa da me stessa. Forse ero caduta nella disperazione perché il loro atteggiamento mi aveva fatta sentire ero immatura, debole incapace di reggere il dolore, perché non avevo abbastanza amore per mia figlia, o perché non avevo abbastanza fiducia. Mi sono scusata con l’ostetrica per essere stata immatura e disobbediente. E poi non riuscivo a capacitarmi di come la vita potesse essere così dura e piangevo. Che mi aspettava con i prossimi figli? Se questo è solo un parto, allora che mi aspetta nell’ora della morte? Perché Dio abbandona i suoi figli così? Perché la vita è così crudele? Per 15 giorni non feci altro che chiedermi queste cose. Non mi capacitavo di ciò che mi era successo. Come un barometro impazzito, alternavo la gioia più estrema che si possa immaginare alla disperazione profonda. Entrambe emozioni non umane, di un altro mondo. Piangevo ora dalla gioia, ora dalla disperazione. Ero confusa e stordita. Era come se il Signore mi avesse dato un abbraccio e un cazzotto nello stesso tempo. Quando guardavo il sacro cuore di Gesù appeso sopra il letto, l’immagine che guardavo ogni mattina, gli dicevo: “io con Te ho chiuso.” Ho avuto paura di essere diventata pazza ma, sapendo che cos’è il baby blues mi sono imposta di non pensarci, di fare finta di niente e infatti è passato. Se avessi dato peso a queste sensazioni sarei di certo finita ricoverata in psichiatria terrorizzata, perché penso di aver avuto molto più che un baby blues in verità… Forse si trattava di un disturbo post-traumatico da stress, evidentemente legato alla violenza sessuale subita in sala travaglio. Se dovessi riassumere l’esperienza del parto, direi che mi sento come una persona che viene da un’esperienza di pre-morte. Come quei tipi un po’ spostati del Maurizio Costanzo show che raccontano di aver abbandonato la Terra, di aver abbandonato il corpo, di essere andati nell’al di là (in questo caso non nel paradiso ma nell’inferno), di aver provato qualcosa di incomunicabile, di inenarrabile a parole. Non è che stia lì a pensarci tutti i giorni ma per un anno a pensarci o a raccontare la cosa mi mettevo subito a piangere. La camicia da notte l’ho dovuta buttare via, non ce la facevo più a piangere ogni volta che mi capitava fra le mani in mezzo al’armadio. Ho passato anni a leggere e a ragionare su ogni particolare per capire tutto quello che era andato storto e come evitare che accada di nuovo. Il clitoride ha sanguinato per 3 mesi e i rapporti sono ripresi in ritardo. Ricordo i primi orgasmi come qualcosa di spaventoso: il dolore, le perdite di sangue dalle cicatrici (il ginecologo diceva che, pur essendo chiuse, la zona è così irrorata che in quei momenti fuoriusciva sangue lo stesso) sempre accompagnati dal pensiero che forse mai le cose sarebbero tornate a posto. C’era dolore, per ben 2 anni, anche quando mi alzavo dal letto o passavo da sdraiata a seduta e in certe giornate non riuscivo neanche a mettermi seduta. Le cose poi sono tornate lentamente a posto, è rimasto solo un po’ di dolore a livello sessuale in certe posizioni, ma quello è legato invece alla vagina lacerata male (forse ricucita male?) Ho pagato caro quello che mi è successo: i vari interventi hanno premuto eccessivamente sul collo della bambina causandole problemi di salute e problemi di suzione, i quali mi hanno provocato a loro volta danni al seno (vari disturbi molto dolorosi). Dal parto in poi, per anni ho continui disturbi alla zona genitale che non avevo mai avuto prima che il mio medico spiega con il trauma subito in quella zona. E poi se fosse andata in un altro modo a quest’ora già avrei fatto sicuramente un altro figlio, mentre invece mi sono ritrovata per anni a scoppiare a piangere anche se solo provavo a fare certi esercizi di respirazione che magari casualmente mi ricordavano vagamente il momento delle spinte.
Mille domande mi tormentano ogni giorno e cercano una risposta, soprattutto in preparazione dell’eroico atto di coraggio che mi aspetta se mai riuscirò ad avere altri figli. Temo ormai di essere incapace di partorire e soprattutto di farlo con il carico di ricordi che mi porto dietro. È vero che i problemi sono iniziati con l’ingresso in ospedale, ma l’avermi tolto la possibilità di mettermi alla prova con condizioni adeguate fa sì che non saprò mai come sarebbe andata senza i loro interventi, se c’è da parte del mio corpo quest’incapacità a partorire che dicono loro. Questo fa capire la profonda insicurezza che mi ha lasciato quest’esperienza.
Il pensiero ripercorre tutto, torna indietro fino alle 4 di notte, quando mi trovavo nel mio salotto. Dolorante ma sempre nel mio salotto, in un’atmosfera di pace e di normalità, in trance, fuori dallo scorrere del tempo, senza il pensiero di dovermi difendere da nessuno. Lì è stato pigiato “stop” e io non saprò mai come sarebbe finito il film.


Lettera immaginaria al direttore sanitario e al primario di ostetricia-ginecologia
Ogni volta che è il compleanno di mia figlia festeggio… e piango anche, ma non è giusto. Ho intrapreso il mio personale percorso di informazione e di crescita interiore per arrivare a rielaborare quello che ho vissuto, per il mio benessere, quello di mia figlia e per trovare un giorno il coraggio di mettere al mondo un altro bambino, non per denunciare nessuno. Il mio racconto è stato scritto inizialmente per il bisogno impellente di sfogarmi e di confrontarmi con altre mamme per superare quest’esperienza ed è stato costellato di tanti dolorosissimi ricordi e di tanti pianti. Credo di più nella forza di questa pubblicazione che in una denuncia penale, anche se magari l’avrei vinta, perché credo che l’amore e non la paura sia la molla principale da cui scaturisca la crescita di una persona, che si parli di un bambino, di un animale o di un essere umano adulto, indifferentemente che si parli di crescita professionale o umana. Mi aspetto che i responsabili effettuino controlli più accurati, mi aspetto che l’Unicef effettui controlli diversi sugli ospedali a cui concede la certificazione, mi aspetto che in tutta Italia si intervenga per prevenire questi atti osceni si attivando corsi di formazione appositi, controlli più accurati e anche lodando quelle ostetriche che, pur tra le critiche dei colleghi (sentite con le mie orecchie), si battono ogni giorno per realizzare un cambiamento in cui credono profondamente (mi riferisco sicuramente alle organizzatrici dei corsi pre-parto che ho avuto il piacere di conoscere di persona), mi aspetto leggi nuove sulla violenza ostetrica come violenza sessuale. Il fatto che il 60% delle donne italiane non abbiano ancora diritto di libera scelta riguardo al loro parto non può attenuare le responsabilità di nessuno. Il fatto che siamo il paese più scandaloso del mondo intero per la qualità della gestione dei parti con il record del tasso maggiore di cesarei (cioè interventi che portano a una mortalità 4-6 volte maggiore rispetto a un parto naturale e che arrecano comunque danni a mamma e bambino) non può continuare ad assopire la coscienza rassegnata e spenta delle donne. Trovo scandaloso che nessuno parli delle 50 donne morte di parto in Italia solo quest’anno. L’unica soluzione offerta sembra essere l’epidurale, e anche qui si tratta di una scelta disinformata, perché nessuno parla del rischio di complicazioni per mamma e bambino, di cesareo (e dunque di morte) che essa comporta. Quasi tutte le donne che vedo partorire escono dalla sala parto malconce, depresse, riluttanti alla ripresa dei rapporti sessuali, eppure dopo il parto non c’è tempo di studiare per capire cosa è successo, non c’è tempo per piangere, non c’è tempo per altro: devi essere forte e lucida e basta, anzi no, devi essere pure felice, e se ti lamenti vieni guardata da tutti con uno sguardo giudicante (come? Ti lamenti per la cosa che fanno tutte le donne del mondo? Hai un bambino bello e sano e stai qui a piagnucolare?) Il fatto di ignorare da decenni le raccomandazioni OMS e la Carta europea delle partorienti, il nascondersi dietro il“si è fatto sempre così” non è una buona scusa per continuare a gestire i percorsi universitari e gli ospedali come fossero macellerie, e non è fattibile nel mondo di oggi, in cui l’accesso a internet e la circolazione di informazioni fanno sì che molte donne siano più informate degli operatori stessi. È semplicemente ridicolo che i movimenti e i vocalizzi che la natura impone di seguire e che scientificamente corrispondono agli esiti migliori possibili vengano scambiate dagli operatori per banali crisi isteriche, vengano viste come rifiuto di collaborare, obbedire, come comportamenti pericolosi, errori grossolani in cui ormai non cade più nemmeno l’uomo della strada. È intollerabile che quasi tutte le donne escano dal parto complessate, con la convinzione di essere, fisicamente o psicologicamente inadeguate e impossibilitate a partorire per un perineo fatto male, una pelle fragile, un carattere inadatto al parto, dei tempi corporei sbagliati, una carenza di forza fisica, un bacino stretto, un’incapacità a spingere correttamente… Le donne sono socialmente addestrate ad ingoiare e a rinnegare i propri sentimenti riguardo al parto ripetendosi “sono viva, il bambino è sano, dunque non mi posso lamentare” ma ciò non significa che non si tratti di un crimine di massa socialmente accettato: ogni donna che si sia trovata in questa situazione è stata privata della possibilità di una scelta informata e ha vissuto una vera violenza sessuale. Considero però più comprensibile una violenza sessuale fatta da una persona malata che una fatta per non aver avuto voglia di fare un corso di aggiornamento o di attenersi al protocollo del proprio ospedale.


Molti mi hanno consigliato una denuncia penale. Personalmente, spero che la mia rivincita stia nella pubblicazione di questa testimonianza, perchè trasformi quest’esperienza in qualcosa di utile e in un futuro secondo parto più dignitoso in casa mia (sempre che trovi il coraggio di avere un altro figlio). Dopo tutte le dichiarazioni di OMS e dei massimi esperti mondiali sulla sicurezza del parto in casa assistito e soprattutto dopo l’esperienza del primo parto, questa volta nessuno potrà darmi torto. Combattere la violenza sessuale sulle donne rivelando a tutti la mia preziose esperienza è un atto dovuto verso mia figlia innanzitutto, il mio piccolo tassello per cambiare le cose, evitarle quel dramma che ho dovuto subire io. Spero che la società si evolverà e che chi assisterà alla nascita dei miei futuri nipoti siano persone degne di essere presenti ad un atto sacro come la nascita di una persona umana.




3 commenti:

  1. Questo racconto mi ha fatto tornare indietro di 32 anni.Ho ancora vivo il ricordo del mio primo parto come una violenza finita poi dopo 12 ore di dilatazioni manuali, flebo di ossitocina, rottura delle acque da parte del ginecologo e manovre dolorosissime varie, con un parto cesareo d'urgenza.Tutto questo perché dopo aver perso il tappo mucoso la sera precedente al parto ho chiamato il ginecologo che mi ha detto di andare in clinica perché voleva visitarmi; purtroppo per me era sabato mattina ed il ginecologo decise che mi avrebbe fatto partorire in giornata(la domenica aveva altri impegni probabilmente).Il risveglio post parto affrontato dopo ore di interminabili dolori fu traumatico, ancora oggi ricordo che mi strappai le flebo dalle braccia. Eppure venivo fuori da una gravidanza serena, piena di energia fisica e mentale.Sono convinta che non furono rispettati i tempi, un medico onesto avrebbe dovuto mandarmi a casa visto che il mio utero era dilatato solo di 1 cm, e avrebbe dovuto rassicurarmi che tutto andava bene e che dovevo aspettare le contrazioni invece di indurmele con l'ossitocina.L'esperienza di quel parto mi ha segnata ,anche io dopo non sono stata bene ed ho cominciato a soffrire di ansia mista a depressione post traumatica e al mio secondo parto avevo paura di andare in clinica.Credo che ci siano molti medici che non sanno fare il proprio mestiere e noi poveri pazienti che li incontriamo paghiamo conti salati soprattutto dal punto di vista psicologico .

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